Nella Terra Dei Maestri Comacini

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Correva l’anno Mille e sembrava dovesse arrivare la fine del mondo. E invece “l’Europa si ricoprì di un candito manto di chiese”, come ricorda Rodolfo di Glabro, uno dei più famosi cronisti dell’età medioevale. Di questa spettacolare nevicata, Como vanta straordinari capolavori, vertici dell’architettura e dell’arte romanica che da soli valgono un viaggio

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 Anche perché proprio a Como e nelle vallate che incorniciano il Grand Hotel Tremezzo sono nati i famosi maestri comacini, artefici di una tradizione che dall’VIII al XVII secolo, dalle terre intorno al nostro lago fino alle capitali europee, rappresentano uno dei capitoli più originali della cultura italiana. Di questi tesori parliamo con Marco Carminati, storico dell’arte, giornalista e responsabile del Domenicale de Il Sole 24 Ore, primo e più autorevole supplemento culturale italiano.

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Como e i maestri comacini, come nasce questa tradizione?

Marco Carminati: Nasce proprio nel nome, comacini, che da un lato significa “da Como” e dall’altro “cum machinis”, cioè con i macchinari, le funi, gli argani, i sistemi di innalzamento, che questi bravissimi artigiani, già in epoca longobarda, quindi parliamo dell’VIII secolo d.C., recuperano dalla grande tradizione dell’architettura romana. Non dimentichiamo che Plinio il Vecchio, autore della Naturalis Historia, l’enciclopedia più importante del mondo antico, era nato a Como nel 23 d.C., e non dimentichiamo che il 36° libro di questa summa di conoscenze era dedicato proprio alle pietre. La zona di Como era ricca di cave. Ed ecco perché i maestri comacini si specializzano nell’intaglio delle pietre. Ed ecco perché Rodolfo di Glabro parla di “nevicata di chiese”, perché questi edifici erano appunto di pietra, più chiara certamente dei mattoni con cui erano stati costruiti gli edifici classici.

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Nonostante la caduta dell’impero romano, le antiche conoscenze dunque sopravvivono. Quale evento le riporta alla luce?

M.C. Con il crollo dell’impero romano queste conoscenze tecniche, pensiamo alla maestosità del Pantheon e del Colosseo, si inabissano, ma rimangono vive a livello locale. E tornano alla luce quando in Italia arrivano, sull’onda delle invasioni barbariche, i Longobardi, guerrieri imponenti, che a differenza dei romani portavano una “longa barda”, cioè una lunga lancia. I Longobardi si convertono velocemente al cristianesimo e diventano fautori di molti edifici. E i maestri comacini lavorano per loro. Anzi, il termine di maestro “comacino” compare per la prima volta in due documenti longobardi: l’editto di Rotari e la disposizione di Liutprando. E proprio nella disposizione scopriamo la paga di questi artigiani, un vero e proprio tariffario per ognuna delle loro mansioni. Dobbiamo immaginare intere squadre al lavoro e immaginarle qualche secolo dopo intente a realizzare le sculture in pietra del portale di San Fedele, o gli spettacolari affreschi di Sant’Abbondio (a cui dedichiamo un approfondimento, n.d.r.), o ancora gli ambienti della chiesa di Santa Maria Maddalena che nell’XI secolo accoglieva i pellegrini lungo la via Regina. E immaginiamoli anche a squadrare, naturalmente a mano, le pietre che compongono la decorazione bicroma di Santa Maria del Tiglio. Le pietre, come dicevamo, erano di queste zone e parliamo del famoso marmo bianco di Musso e della pietra nera di Olcio.

Possiamo già immaginare un itinerario attraverso questi capolavori?

M.C. Partiamo dalle meraviglie di Como, Sant’Abbondio, San Fedele e il Duomo, quindi spostandoci verso Tremezzo incontreremo la chiesa di San Giacomo e quella di Santa Maria Maddalena a Ossuccio. Giro in battello fino all’isola Comacina per ammirare la chiesa di San Giovanni, e infine proseguendo verso Gravedona, scopriremo la bellezza originalissima della chiesa di Santa Maria del Tiglio. Sarà un viaggio nel tempo.

 

Torniamo all’anno Mille, allora. Come lavoravano queste maestranze?

M.C. I maestri comacini sono una delle massime espressioni del “saper fare” e del “fare squadra”. In pratica in ogni squadra c’erano tutte le figure per costruire e decorare un intero edificio. C’erano architetti, scultori, lapicidi, falegnami, stuccatori, pittori. E da quando appaiono sulla scena fino a molti secoli dopo, partendo da Como e giungendo alle corti delle capitali del nord Europa, i maestri comacini saranno in grado di costruire chiese e palazzi “chiavi in mano”. Dalle fondamenta alla decorazione.

La storia ricorda il nome di qualche maestro comacino?

M.C. La storia ricorda addirittura un’intera famiglia. E per scoprirla dobbiamo tornare in città e dirigerci verso il Duomo. Piccola caccia al tesoro e sulla facciata, su una lastra di marmo, leggiamo un nome: Rodaris. I Rodari erano una delle più importanti famiglie di artisti comacini, il padre Giovanni e i quattro figli, di cui i più famosi sono Giacomo e Tommaso. I Rodari lavorano alle sculture della facciata del Duomo di Como tra la fine del XV secolo e l’inizio del XVI. E in quegli anni così fervidi per la storia dell’arte la tradizione dei maestri comacini si aggiorna nel segno del Rinascimento. Se osserviamo la facciata, notiamo che insieme alle figure tradizionali di una chiesa cristiana, quindi la Vergine Maria e i santi, ci sono personaggi della cultura classica. E non sono figure a caso, perché ai lati del portale principale del Duomo troviamo le statue di Plinio il Vecchio e di suo nipote Plinio il Giovane, come se questi due studiosi del mondo antico fossero i veri protettori della città.

 

Che cosa succede nel Rinascimento?

M.C. Succede che la cultura classica e la cultura cristiana si uniscono in un unico messaggio e la cattedrale diventa per la prima volta il monumento di tutto il sapere umano.