Photo Trouvée, quando ricordare è un’arte
Chi ama la fotografia anonima, che i francesi chiamano photographie trouvée, o photographie anonyme, e che gli americani sintetizzano nella parola snapshot, non smette mai di cercarla.
Una tensione, un desiderio continuo perché la snapshot è ovunque, in ogni parte del mondo, la snapshot parla di noi, siamo noi, i nostri battiti del cuore quotidiani, i nostri momenti di festa, i nostri amori, i nostri baci, i nostri figli, il nostro semplice camminare per strada quel giorno, persino i nostri errori, perché mai come oggi i collezionisti cercano pazientemente quelle immagini doppie, sfuocate, mosse, che anticipano, accompagnano e proseguono le intuizioni visive delle avanguardie del Novecento. Da quando la tecnica è diventata più accessibile, cioè verso la fine del XIX secolo, la fotografia, come sguardo, come oggetto, come ricordo, è entrata nel nostro sentire comune, ha cambiato le nostre vite, e ha creato piccoli capolavori anonimi, poetici e misteriosi.
Più di dieci anni fa, Valentina De Santis, CEO e proprietaria del Grand Hotel Tremezzo e di Passalacqua, si è avvicinata alla bellezza di questa altra fotografia e ha iniziato a collezionarla, scegliendo un tema a lei caro, ovvero il piacere della tavola, la convivialità, così italiana e così autentica in ogni parte del mondo. Decine e decine di immagini, trovate nel corso dei suoi viaggi, che hanno ricomposto un universo di sapori, di oggetti, di sguardi, di gesti, di sentimenti e che oggi splendono, in parte, sulla grande parete del ristorante L’Escale, nel cuore del Grand Hotel Tremezzo.
Dell’importanza di questa produzione senza limiti se ne sono accorti istituzioni come il Museum of Modern Art e il Metropolitan di New York, che hanno deciso di inserire la fotografia anonima nelle loro collezioni. Sulla scia di questa straordinaria apertura è nato un movimento internazionale, dall’America all’Europa, con punte di virtuosismo in Francia – non a caso i Surrealisti avevano avvertito per primi la bellezza nascosta dell’anonimo, come espressione più vicina all’inconscio – che vanta studiosi e collezionisti come Clément Chéroux, storico della fotografia e oggi curatore del Dipartimento di fotografia del MoMA, quindi Cédric de Veigy, Robert E. Jackson, Michel Frizot, Sébastien Lifshitz, e soprattutto Thomas Walther che ha coniato per questo straordinario materiale un altro nome molto suggestivo: the other picture.
I modi e le occasioni di mangiare insieme sono tanti, è un’arte come ha raccontato anche l’articolo che l’edizione italiana di How To Spend, mensile de Il Sole 24 Ore, ha dedicato alla collezione di Valentina. Può essere un elegante picnic su una tovaglia bianca nella Francia di fine Ottocento, o una donna soldato durante la prima guerra mondiale, forse in licenza, in posa davanti a un piatto di pasta, o il ritratto di due fratelli intorno a una bottiglia di vino, o ancora una cena di trenta e più commensali, forse una festa, un anniversario, o ancora un semplice caffè, un pacchetto di sigarette, una fetta di pane e qualche moneta, natura morta vivente sul tavolo di un bistrot. «Quello che mi ha sempre colpito di queste immagini – racconta Valentina De Santis – è la loro forza e fragilità insieme.
Così piccole, così intime, che le puoi tenere in mano, eppure così resistenti e capaci di giungere a noi ancora freschissime a distanza anche di un secolo dallo scatto. Ho iniziato a raccoglierle per caso in un mercatino delle pulci di Parigi e ho continuato negli anni con la stessa passione del primo giorno. Mi emoziona ogni volta “trovare” queste capsule del tempo, queste memorie che solo la carta è riuscita a conservare. Mi piace soffermarmi sui volti, sui sorrisi, perché tutti sorridono a tavola. Credo non esista un luogo più della tavola che abbia l’energia, il calore, il profumo di metterci tutti di buon umore, di rilassarci, di farci sentire vicini. Il tema della mia collezione è nato così. Ed è nata anche una domanda: le immagini che scattiamo ogni giorno e che postiamo sui social avranno la stessa forza? Verranno “trovate” da qualcuno fra cent’anni?». Chi si ricorderà di noi?